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Giovedì, 28 Marzo 2024
Politica

Fiera del Levante 2019, il discorso del sindaco Decaro

Accoglienza, integrazione, sicurezza ma anche futuro della città e le polemiche sul nuovo governo tra i temi toccati dal primo cittadino nel suo discorso di apertura della Campionaria

Signor Presidente del Consiglio, autorità civili, militari e religiose, rappresentanti dei Paesi esteri, imprenditori, cittadini, benvenuti alla ottantatreesima edizione della Fiera del Levante.

Alcuni dei presenti in questa sala l’anno scorso pensarono (forse con un certo sollievo) che quello sarebbe stato il mio ultimo discorso d’apertura della Fiera del Levante. E devo confessarvi che quel pensiero, per qualche istante, ha attraversato anche me.

Del resto sono cinque anni che desidero andare in fiera come ci andavo da ragazzo, mettermi i jeans, dare appuntamento agli amici alla Peroni, passeggiare per gli stand e mangiare le merendine dell’Aida.

E invece, sono costretto a deludervi. Anche quest’anno sono qui, su questo palco. Con la bocca un po’ impastata, le gambe che mi tremano e con la stessa emozione della prima volta.

Perché a inaugurare la Campionaria non ci si abitua mai.

A parlare davanti al Presidente del Consiglio non ci si abitua mai.

Soprattutto, non ci si abitua mai a indossare questa fascia tricolore.

E guai se non fosse così.

Guai a chi smette di emozionarsi mentre rappresenta la propria comunità.

Guai a chi scambia un incarico temporaneo da svolgere con disciplina e onore per una specie di diritto inalienabile.

Guai a chi coltiva l’abitudine del potere.

L’abitudine al potere è una pericolosa malattia.

E si manifesta con sintomi molto chiari: distacco dalla realtà, tracotanza, presunzione di infallibilità, delirio di onnipotenza, tendenza a circondarsi di adulatori.

Per questo mi piace sentire l’emozione di questa fascia. Perché è la prova che non ho smesso di riconoscere il valore delle istituzioni che rappresento. È la prova che ogni giorno cerco di servirle con umiltà.

E non è merito mio. Se lo faccio è grazie ai tanti cittadini che incontro per strada, che con i loro richiami e con i loro suggerimenti, a quella strada mi tengono ben piantato, impedendomi di dimenticare quello che rappresento per loro. Un servitore. Un operaio nella fabbrica della loro felicità.

La strada e il dialogo con i cittadini.

Due ottime medicine contro la malattia dell’abitudine al potere.

È grazie a queste medicine che oggi qui, posso rinnovare una promessa: nei prossimi cinque anni continuerò a fare il sindaco in questo modo, girando per le strade e dialogando con i cittadini.

Qualche giorno fa un cittadino mi ha detto: “Antò, perché vai ancora a fare i sopralluoghi? La campagna elettorale è finita e non puoi nemmeno ricandidarti“.

Gli ho spiegato che io non giro per le strade della città per pubblicare un video e fare il conto dei like o dei voti che mi frutta. Lo faccio perché è l’unico modo che conosco per fare il mio mestiere. Il sindaco.

Perché è l’unico modo che conosco per onorare questa fascia tricolore che porto sul petto. Qualcuno in questi tempi ha fatto passare l’idea che il potere serva a macinare consenso. E che quel consenso serva a sua volta per aumentare il proprio potere. Una spirale perversa che nega l’idea stessa della politica.

Che significa invece provare ogni giorno a rendere migliore la vita dei cittadini.

Con la consapevolezza che non sempre ce la farai. Qualche volta, più di qualche volta, la tua azione potrà incepparsi, potrà ritardare, potrà non riuscire come l’avevi pensata.

E allora ti sentirai impotente, amareggiato, sconfitto.

Guidare una comunità vuol dire anche questo: fare i conti con i propri limiti, evitare di cercare alibi ed assumersi pienamente le responsabilità.

Forse quello che sto dicendo è banale.

Ma io penso che in questo momento sia importante ripartire dalle basi. Perché oggi più che mai i principi fondamentali della democrazia vengono calpestati. Nel caso migliore per ignoranza. Nel caso peggiore, per disprezzo.

È accaduto spesso, in questa estate italiana confusa, aspra, tesissima, nella quale le regole della nostra convivenza civile sono state messe a rischio. Per questo, da rappresentante delle istituzioni ma ancora di più da semplice cittadino italiano, desidero ringraziare con tutto il cuore chi più di ogni altro ha aiutato il Paese a tenere dritta la barra del decoro istituzionale e del rispetto delle norme fissate nella nostra Costituzione: il presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

Durante i giorni più concitati di questa crisi di Governo, la sua voce netta e le sue parole limpide hanno scolpito ancora una volta i principi fondamentali della nostra democrazia.

Io non so quanti like prenda il Presidente Mattarella, non credo neanche abbia una pagina facebook.

Sicuramente a lui, da qui, voglio indirizzare il mio umile “like”, a nome mio e di tutti quelli che credono ancora che vivere in uno stato democratico e civile significhi innanzitutto rispettare la Carta costituzionale e i suoi principi.

Sono queste le basi per far nascere e crescere una comunità solida e unita al proprio interno. Sono questi i valori che ci hanno insegnato e che ci rendono orgogliosi di essere italiani.

È questa la nostra identità. E se vogliamo difenderla, non serve proteggere i confini, alzare i muri o chiudere i porti. Il vero pericolo per le nostre comunità viene da noi stessi.

Quando un’impresa, una famiglia, un cittadino cominciano a vedere il vicino non come un possibile alleato, ma come un ostacolo alla realizzazione dei propri obiettivi, quando l’idea di collaborare, di incontrarsi, di percorrere insieme un pezzo di strada ci mette inquietudine, finisce che ognuno si chiude nei propri orticelli, curando esclusivamente i propri piccoli interessi ed elevando a confine le proprie mura domestiche.

Succede quando la paura prende il posto della speranza.

Succede quando l’egoismo prende il posto della fiducia.

Ed è qui che muore la nostra identità, è qui che muore l’idea stessa di comunità.

A quel punto, noi che facciamo politica abbiamo due strade davanti: la prima, la più semplice, è quella di soffiare su quegli egoismi e trasformare la diffidenza in odio. 

La seconda, certamente più faticosa, è quella di provare con tutte le nostre forze a scommettere sull’idea di bene comune. È la strada delle regole del vivere civile, quella per cui la cosa pubblica è di tutti, non di nessuno.

A Bari ci abbiamo provato. E abbiamo capito che a renderci più sicuri non sono i muri delle nostre case. Per questo abbiamo messo nuove luci nelle piazze e nelle strade, abbiamo aperto nuove spiagge, stiamo realizzando 14 playground e 10 nuovi parchi e animando la città con centinaia di eventi. Convinti come siamo che la vera sicurezza sia incontrarci nei luoghi pubblici, guardarci negli occhi, parlarci e condividere le nostre esperienze, far giocare insieme i nostri bambini.

Da questa semplice ma ambiziosa idea è nato il progetto di Reti Civiche Urbane che un anno fa annunciammo proprio qui in Fiera. In soli 12 mesi quel progetto ha generato 104 incontri, 300 ore di co-progettazione, 62 sedi associative frequentate, più di 300 realtà coinvolte. È nata una comunità di 2.000 persone attive - che ha avuto come obiettivo quello di coinvolgere i cittadini nel tradurre le proprie idee in progetti concreti da realizzare, per rendere più bello e più sicuro il proprio quartiere. 

L’identità di un Paese non è in pericolo quando un ragazzo in fuga da una guerra trova qui un’occasione per cambiare la sua vita.

Un Paese è in pericolo quando i proprietari di un’azienda agricola, non solo lasciano morire un operaio, italianissimo, sul luogo di lavoro, ma invece di informare i familiari, corrono a regolarizzare, dopo la morte, la posizione di quel pover’uomo, per evitare guai con la giustizia.

Il nostro Paese è in pericolo perché la famiglia di quel lavoratore è venuta a conoscenza della sua morte dal commercialista. 

Il nostro Paese è in pericolo perché quella famiglia, appresa la notizia, ha scelto di non denunciare e si è chiusa in un rassegnato silenzio.

Un Paese che dopo una morte che grida vendetta si abitua al silenzio.

Quello è davvero un Paese in pericolo.

È in pericolo perché sta accettando, come fosse naturale, che un essere umano possa uscire di casa e morire di fatica e di caldo in mezzo alla campagna. Come è successo a Paola Clemente qualche anno fa, sotto un tendone a pochi chilometri da qui.

Io non voglio abituarmi al silenzio assordante e disumano che circonda una morte sul lavoro. Non voglio abituarmi ad ascoltare al telegiornale la fredda enunciazione del numero dei morti in mezzo al mare, come se fossero le estrazioni del Lotto.

Non posso e non voglio abituarmi a un uomo che sferra un calcio in pieno addome a un bambino di tre anni… un bambino di tre anni… solo perché è nero.

Qualcuno mi dirà che sono buonista.

E invece no.

Io non sono tra quelli che propongono l’accoglienza senza regole. Non sono tra quelli che dicono che il problema non esiste.

Io sono un sindaco. E sono anche il rappresentante di tutti i sindaci d’Italia.

E so che se in un paese di mille abitanti, in una notte, senza preavviso, ne arrivano altri mille (come è successo davvero), e questi mille non hanno un posto in cui stare, non hanno mediatori culturali che li aiutano, non hanno davanti a sé un percorso di integrazione, bene, che siano bianchi, rossi, gialli o neri, queste persone diventano un problema.

Perché determinano, oggettivamente, uno squilibrio sociale che crea un grave disagio. E noi quel disagio dobbiamo prevenirlo, non ignorarlo.

Presidente Conte, mi rivolgo a lei: noi sindaci non abbiamo la presunzione di conoscere il futuro, non temiamo l’invasione che qualcuno annuncia, ma sappiamo che le nostre comunità hanno bisogno di risposte vere e concrete. 

Per questo avevamo proposto al Governo un metodo per la ripartizione dei migranti in base alla popolazione di tutti i Comuni italiani. Una proposta di buonsenso. 

Questo è il modello di lavoro dei sindaci. Spogliarsi di ideologia, di preconcetti, di slogan e andare in giro per le strade.

Cercare di capire perché la signora Anna, del quartiere Libertà di Bari, che ha passato una vita facendo volontariato, non vuole più uscire di casa e dice che ha paura, e che i neri non li sopporta più.

È colpa delle campagne mediatiche anti-immigrazione? Sicuramente. Ma solo in parte.

È colpa anche nostra, di tutti noi indistintamente.

Perché se in questi anni fossimo andati a parlare più spesso con la signora Anna, o ci andassimo oggi, scopriremmo che accogliere senza integrare vuol dire diventare complici dei clan mafiosi. Clan mafiosi che per quelle persone senza futuro rappresentano uffici di collocamento efficienti.

Se noi non la trasformiamo in integrazione, l’accoglienza si trasforma in accattonaggio, se ci va bene. In manovalanza a basso costo per la mafia, se ci va male.

È qui che nasce, il più delle volte, il nuovo “razzismo” italiano.

E anche di fronte a questo tema cruciale, noi politici abbiamo davanti due strade.

La prima, quella semplice, è scrivere un bel post indignato su quanto è xenofoba la signora Anna, lavarci la coscienza e continuare ad essere i mandanti occulti di quel razzismo.

La seconda, la strada più complicata, è fermarsi ad ascoltare la paura di Anna, capire dove e come vive. E poi studiare i dossier, imparare le buone pratiche, partecipare alle riunioni internazionali e provare a cambiarlo lì il futuro del nostro Paese, non nelle piazze delle campagne elettorali.

A proposito di muri e di futuro, tra meno di due mesi saranno trent’anni esatti dall’abbattimento del muro di Berlino.

Ricordo i volti degli uomini e delle donne che il 9 novembre del 1989 salirono su quel muro per distruggerlo con i loro martelli, con i loro picconi. Soprattutto con i loro sogni e con la loro voglia di libertà.

Chissà cosa pensano oggi, mentre il mondo, dall’Ungheria agli Stati Uniti, festeggia questo trentennale costruendo nuovi muri, più alti e più inquietanti di quelli di prima.

Non sono i muri a proteggere le identità.

Io non mi sento più italiano se sono protetto da un muro.

Io mi sento più italiano se il mio Paese è in grado di scommettere sul suo futuro.

A Bari, nel nostro piccolo, ci stiamo provando. Partendo da Rousseau. No, non la piattaforma, con tutto il rispetto. Parlo del filosofo.

Sì perché Jean Jacques Rousseau diceva: “Prendi la direzione opposta all’abitudine e quasi sempre farai bene”.

Ebbene l’abitudine, qui a Bari, era quella di piangerci addosso, di considerarci una provincia marginale con un destino segnato, nell’attesa perenne che qualcuno, da Roma in su, ci prendesse per mano e ci indicasse la via.

Da molti anni però Bari ha imparato a rialzare la testa, ha ritrovato orgoglio e identità e il suo destino lo sta scrivendo da sola.

Siamo nella top ten dei luoghi da visitare in Europa secondo Lonely Planet, abbiamo riaperto due teatri e ne stiamo riaprendo un terzo. Abbiamo costruito due metropolitane, rinnovato il parco dei mezzi pubblici, abbiamo realizzato il più imponente investimento sulla riqualificazione degli spazi pubblici, in continuità con l’amministrazione guidata da Michele Emiliano. 

E oggi, finalmente, Presidente Conte, abbiamo promosso con tutte le istituzioni, un’iniziativa pubblica, interamente pubblica, per uscire dall’emergenza dell’edilizia giudiziaria.

Oggi, finalmente, abbiamo una prospettiva per restituire dignità e decoro ad una funzione centrale e vitale per l’esercizio della legalità. Ma su questo, Presidente, abbiamo bisogno dell’impegno forte e convinto del suo Governo.

Insomma, da provincia marginale Bari sta diventando una città europea a tutti gli effetti.

Abbiamo ospitato decine di eventi internazionali, sportivi, religiosi e politici, sempre organizzati in modo impeccabile.

E per questo, Presidente Conte, approfitto della sua presenza qui per ricordarle la candidatura di Bari come sede dei lavori del G20 del 2021.

Non so se questa candidatura sarà premiata. So che, come diceva qualcuno, “comunque vada sarà un successo”. Perché sarà una palestra in cui tutti noi ci eserciteremo ancora una volta a investire sul nostro futuro.

Un’altra materia, il futuro, su cui stiamo provando a praticare l’insegnamento di Rousseau. Abbiamo infatti abbandonato l’abitudine di fare scrivere i piani strategici e i progetti di sviluppo futuro nelle stanze del potere. 

E siamo andati nella direzione opposta: abbiamo aperto le sale del museo archeologico della nostra città e abbiamo chiamato cento ragazzi, con un’età media di 20 anni a discutere della programmazione 2020-2030 dell’area metropolitana. (C’è anche un quattordicenne, si chiama Fernando).

Studenti, professionisti, giovani appassionati provenienti da tutta l’area metropolitana, si sono seduti intorno a un tavolo e si sono ripresi qualcosa che gli appartiene di diritto. Il futuro.

Perché è vero, l’esperienza è importante. Ma non se ne può più di anziani che parlano di giovani, di come devono comportarsi i giovani, di quanto siano importanti i giovani.

Adesso è arrivato il momento di passare il testimone, di rendere i giovani davvero protagonisti.

Basta parlare di giovani! Facciamo parlare i giovani.

E se mi permettete, basta anche con tutti questi uomini che parlano di donne. E lo fanno a sproposito.

Perché di una donna che ha lottato tutta la vita per i diritti suoi e dei suoi compagni, per l’emancipazione della sua terra, non m’importa il colore del vestito. Mi importa il colore delle idee, della passione, il colore della forza che ogni giorno impiega per ottenere quello che le spetta di diritto.

Buon lavoro ministra Bellanova, buon lavoro Teresa, e buona fortuna a te e a tutte le donne che lottano e che vanno avanti a testa alta.

E visto che parliamo di parole a sproposito sulle donne, vorrei ricordare che non c’è amore in un uomo che ammazza una donna. Quello si chiama odio.

Che non c’è passione in chi nasconde il cadavere di una donna e dopo le manda due messaggi per depistare le indagini. Quella si chiama premeditazione.

Vorrei ricordare che non c’è un gigante buono. Quello si chiama assassino.

A Bari, da quest’anno c’è una bella novità. Nel nuovo Consiglio comunale ci sono ben dodici donne. E quattro sono le assessore. Un primato senza precedenti. Anche a loro, così come a tutto il Consiglio comunale e alla Giunta, va il mio sincero augurio di buon lavoro.

Le donne in Consiglio comunale. I giovani intorno al tavolo del piano strategico. I cittadini che escono di casa e si incontrano nelle reti civiche. Questa è l’Italia in cui vogliamo vivere.

E non ci importa se sia blu elettrico, gialla o nera, cattolica, atea o musulmana, sposata, divorziata o convivente, eterosessuale o omosessuale.

Ci importa che sia un’Italia più giusta, più libera, più unita, che ha fiducia nel suo futuro, che non spreca risorse per alzare muri ma le impiega per costruire l’opera pubblica più importante che esista: la comunità.

Questa, dalla Fiera del Levante, da Bari, è la nostra risposta a chi una risposta, a dire il vero, non la meriterebbe nemmeno.

È la nostra risposta a chi sul suo giornale ha definito il nuovo governo “uno zoo pieno di terroni ostili al nord che li mantiene tutti”.

Quell’attempato signore può scrivere quello che vuole. Noi quaggiù non possiamo perdere tempo ad occuparci delle sue frustrazioni. Noi abbiamo un Paese da ricostruire, abbiamo un futuro da vivere.

E per quanto ci riguarda non esiste nord contro sud, non esistono ministri del nord e ministri del sud, esistono solo i ministri della Repubblica italiana.

Certo, fa piacere avere dei conterranei tra gli esponenti di questo Governo.

Ma il buon lavoro di un ministro, come di un giocatore, si sa, non si giudica da questi particolari.

Un ministro, come un giocatore, lo vedi dal coraggio. Il coraggio di abbandonare l’abitudine del potere e di prendere le strade più difficili. Il coraggio di decidere, non in base ai sondaggi ma in base al bene del Paese.

Un ministro non si giudica dalla città di residenza o dal suo luogo di nascita. Si giudica dalla sua capacità di lavorare per un Paese più giusto, più efficiente, più veloce, con più diritti.

Un Paese dove la signora Anna ha qualcuno che la ascolta e non ha più paura di uscire di casa; dove Teresa è libera di vestirsi come vuole; dove Elisa e tutte le Elise d’Italia sono libere di amare chi vogliono senza doversi difendere da assassini travestiti da giganti buoni.

Sui resti di quel muro, quel muro venuto giù trent’anni fa, un artista ha trascritto un proverbio africano: «Tante piccole persone che fanno tante piccole cose in tanti piccoli posti, possono cambiare il mondo».

È vero. Un mondo nuovo e più forte si costruisce con piccole azioni quotidiane, fatte in tanti piccoli posti. Capita però a volte che in piccoli posti, alcuni piccoli uomini siano capaci di fare cose grandissime.

Come quarant’anni fa, quando un uomo venuto da un piccolo posto a pochi chilometri da qui, ha reso orgogliosa un’intera nazione. L’ha fatto a Città del Messico correndo i duecento metri nel tempo prodigioso di 19 secondi e 72 centesimi.

Pietro Mennea quel 12 settembre del 1979 ha preso i nostri cuori e li ha portati sul tetto del mondo.

“La fatica non è mai sprecata. Soffri, ma sogni”, diceva Mennea, la “Freccia del Sud”. E non parlava soltanto di sport.

Sì perché è faticoso scegliere la strada più complessa. È faticoso rispettare le regole. È faticoso assumersi le proprie responsabilità. È faticoso abbattere i muri. È faticoso avere fiducia in qualcuno diverso da te. È faticoso provare a migliorare insieme questo Paese.

Ma noi, presidente Conte, noi che siamo nati e viviamo in questo pezzo di Sud, alla fatica siamo abituati.

E a questa nuova fatica siamo pronti.

Sarà una fatica bella ed entusiasmante perché ci farà soffrire ma, come diceva Pietro Mennea, ci farà sognare.

E solo chi è capace di sognare può cambiare il mondo.

Buon lavoro a Lei Presidente Conte e buona Fiera del Levante a tutti noi.

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