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Venerdì, 29 Marzo 2024
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"Sentii il dialetto, pensai di essere in Francia e vestii metal, da noi il rock era vietato": Aurel a 19 anni arrivato con la Vlora

Il commerciante di auto vive a Bari da 30 anni, da quando partito da solo con la curiosità e le speranze di un ragazzo scese dalla nave con i 20mila salpati da Durazzo: "Fui aiutato da famiglie di San Cataldo, ancora oggi il mio quartiere"

“A quei tempi amavamo l’heavy metal e l’hard rock, musica vietata dal regime: così appena arrivati ci siamo sentiti liberi e cercavamo di vestirci come metallari”. Aurel Vleta sorride guardando la foto che lo ritrae nell’agosto nel 1991 in piazza Moro. Aveva 19 anni. Voleva conoscere cosa c’era dall’altra parte del mare, senza dire nulla ai suoi genitori è partito il 7 agosto da Tirana per Durazzo e si è imbarcato sulla nave Vlora arrampicandosi come molti sulle cime che l’ancoravano a fatica alla banchina del porto albanese. Sceso dall’imbarcazione tra la massa dei 20 mila portati allo Stadio della Vittoria ha ascoltato le persone parlare in dialetto per le strade e ha pensato: “Siamo arrivati in Francia”.  Ma era invece a Bari.

Che effetto le fa guardare quella foto?

“Mi fa sorridere tanto, rivivo quei momenti e quella mentalità alla ricerca della libertà di un giovane che si era imbarcato facendo una ragazzata, volendo solo vedere cosa ci fosse altrove”.

Partì con qualcuno?

“No, da solo”  

E i suoi genitori?

“Non sapevano nulla. A Tirana si sparse la voce che c’era questa nave in partenza da Durazzo. In pochi minuti lasciai tutto e mi organizzai per andare. Altrimenti avrei fatto il servizio militare che consideravo tempo perso, era l’occasione per andare via. Per strada incontrai mio cugino che mi domandò: ‘Dove stai andando?’. Gli risposi che mi imbarcavo per andare dall’altra parte del mare. Sbarrò gli occhi.  Ebbi giusto il tempo di chiedergli se poteva avvisare i miei genitori. Sapevano che volevo partire, che volevo venire in Italia, che per noi era il sogno nascosto, la terra dell’abbondanza, della ricchezza e della bellezza. Già a marzo ci avevo provato ma desistetti per i controlli della polizia. Solo dopo una settimana dall’arrivo a Bari riuscii a chiamarli e a tranquillizzarli, erano molto preoccupati”.

Cosa faceva in Albania prima di partire?

“Mi arrangiavo con il commercio radio e stereo e di valute. Era un’attività ai limiti della legalità, una specie di zona grigia tollerata in quel momento storico dal governo”.

Cosa ricorda del viaggio e dello sbarco?
“La sete. Non c’erano né acqua e né cibo, m avevamo bisogno di bere. Nelle stive c’erano grandi quantità di zucchero, ma evitammo di mangiarlo per non aumentare la necessità di liquidi. Ricordo poi il freddo la notte e le navi militari italiane che ci scortarono sotto costa assieme a un elicottero che sorvolava. Alcune persone presero il corpo di un ragazzo morto e lo sollevarono al cielo sanguinante per farlo vedere proprio a chi era sull’elicottero. Furono momenti difficili, ma io avevo la spensieratezza di un ragazzino che non guardava altro che l’orizzonte e la terra che ci appariva difronte”.

Cos’altro ricorda?

“La vista della città vecchia e del campanile di San Nicola, che solo dopo seppi fosse quello della basilica. Ricordo quando ci portarono dentro lo Stadio della Vittoria. Vidi che c’erano le ambulanze della croce rossa, così capii che l’unico modo per uscire era quello di salirci su”.

E cosa fece?

“Simulai un forte mal di pancia e mi portarono in ospedale. Di lì riuscii a scappare ma dopo un giorno la polizia mi fermò e mi riportò dentro. Il giorno dopo fu forzata la porta principale e fuggimmo in tanti. La foto di piazza Moro è di quei due giorni dopo”.

Cosa fece in giro per la città?

“Incontrai persone del quartiere di San Cataldo, dove vivo tutt’ora, che mi hanno aiutato. La prima notte fui ospitato da una famiglia, non certo ricca, con una casa con sole due stanze. Mi offrì da dormire Mimmo, un marinaio. S’imbarcava per due mesi e per due mesi era a terra. Mi fece dormire nella stanza con le due figlie che avevano 17 anni. Sono ancora in contatto con loro e li ringrazierò sempre. Come un’altra famiglia che mi ospitò per un anno, trattandomi come un figlio”.

Nel frattempo cosa faceva?

“Di tutto. Dopo due giorni ero già al lavoro in un panificio. Poi in un supermercato, per due anni nella libreria Rizzoli. Ottenni il visto quando mi iscrissi all’Università. Mi piaceva il diritto e frequentai giurisprudenza, ma riuscii a dare solo un esame, Storia del diritto romano, perché il lavoro non mi permetteva di studiare. I primi tre anni sono stati difficili ma poi ho trovato la mia strada. Per molti anni ho commerciato telefonini e ora sono in proprio come venditore di auto online. Mia moglie è albanese, l’ho conosciuta qualche anno fa. Non faccio certo una vita da ricco ma non mi posso lamentare”.

Cosa ha rappresentano per lei Bari e l’Italia?

“Ero arrivato con la spensieratezza dei miei 19 anni, spinto dalla curiosità di vedere cosa ci fosse dall’altra parte dell’Adriatico. Pensavo di rimanerci pochi aurel oggi-2 mesi  e invece da 30 anni sono la mia casa e sono contento della scelta. Non è tutto oro come ce l’aspettavamo, non è il paradiso che immaginavamo attraverso la Tv, ma ritengo sia il paese migliore dove vivere, con una cucina fantastica, la più buona al mondo. Ne vado pazzo. È sinonimo di bellezza, nonostante i suoi problemi e difficoltà, e io la amo”.

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