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"Un parassita causa dell'estinzione del Pinna nobilis nei mari": la scoperta dei ricercatori dell'Università

Lo studio relativo alle 'nacchere di mare' ha incluso anche alcuni ricercatori dell'Università di Bologna. "Nell'ultimo anno - spiegano - sono morti 7mila esemplari nel Mar Piccolo di Taranto"

È un parassita, l'Haplosporidium pinnae, la causa dell'estinzione del Pinna nobilis nel mar Mediterreaneo e nel mare Ionio. La scoperta relativa alla specie protetta di mollusco bivalve - la più grande del Mediterraneo - arriva da due team di ricercatori dell'Università di Bari, guidati da Domenico Otranto, professore di Parassitologia e Malattie Parassitarie e Direttore del Dipartimento di Medicina Veterinaria, e Angelo Tursi, professore di Ecologia del Dipartimento di Biologia, in collaborazione con Marialetizia Fioravanti e Perla Tedesco, entrambe afferenti al Dipartimento di Scienze Mediche Veterinarie dell’Università di Bologna.

Il Pinna Nobilis

Anche nota come nacchera, pinna comune, cozza penna o stura, l'esemplare di Pinna nobilis vive ad una profondità che si aggira tra 0,5 e 60 m e possono raggiungere l’età di 27 anni e le dimensioni di 120 cm. E, come ricordano i ricercatori, agisce come 'spazzino dei mari', svolgendo un ruolo importante per l'ecosistema: "Filtra grandi volumi di acqua e fornisce un substrato idoneo alla crescita di altri organismi. Si tratta di una specie bentonica, il cui corpo, di forma triangolare, presenta l’apice infisso nella sabbia o, in genere, nei sedimenti ed è ancorato al substrato, spesso rappresentato dalle praterie di Posidonia oceanica, mediante l’ausilio del bisso marino prodotto in grande quantità dalla stessa nacchera”, spiega in una nota dell'Università Tursi, da anni impegnato nello studio del bivalve.

La ricerca

Nell’ultimo anno sono improvvisamente morti più di 7mila esemplari nel solo Mar Piccolo di Taranto. Una moria dovuta alla parassitosi, che ha interessato ampie aree del Golfo di Taranto nonché numerose aree italiane, comprese Aree Marine Protette come Porto Cesareo e Tavolara. La causa di morte di questo bivalve è stata quindi studiata nei laboratori di parassitologia del Dipartimento di Medicina Veterinaria, attraverso l'analisi degli esemplari con metodologie all'avanguardia. "In seguito ad analisi parassitologiche, batteriologiche ed istopatologiche effettuate su esemplari moribondi di P. nobilis campionati dal Mar Piccolo di Taranto, è stata osservata la presenza di un protozoo flagellato del genere Haplosporidium" ha aggiunto Rossella Panarese, dottoranda di ricerca in Parassitologia, e prima autrice di un lavoro internazionale in stampa su Journal of Invertebrate Pathology.

Si tratta di un parassita presente nella ghiandola digestiva del bivalve che non consente allo stesso di alimentarsi portando a morte l’animale. Haplosporidium pinnae (questo il nome scientifico del mortale protozoo) è stato segnalato nel golfo di Taranto per la prima volta in Italia e sembra possa essere arrivato dalle coste Spagnole. “Non è ben chiaro come questo parassita sia giunto nelle nostre acque. Si suppone che le correnti marine, i movimenti delle imbarcazioni, che favoriscono l’insorgenza della mortalità di P. nobilis soprattutto nelle aree portuali, e l’aumento delle temperature dovuto al riscaldamento globale siano tra i fattori determinanti per la diffusione di questo parassita così come di molti altri che stanno colonizzando i nostri ecosistemi" è la tesi di Domenico Otranto. Attualmente sono in corso rilevamenti tesi ad accertare la presenza, sia pure sporadica, di individui sopravvissuti a questo grave evento di mortalità causata dal protozoo Haplosporidium. Alcuni di essi sarebbero già in queste ore oggetto di attento monitoraggio da parte dei ricercatori del dipartimento di Biologia. La ricerca ha come obiettivo, quindi, il ripopolamento del Pinna Nobilis nei mari nel prossimo decennio, proprio grazie a questi pochi individui sopravvissuti all’epidemia.

"Questa ricerca - spiegano dall'Università - è la tangibile dimostrazione di come le nuove generazioni di ricercatori dell’Università di Bari contribuiscano, ai massimi livelli scientifici, allo studio della conservazione di specie protette e, più in generale, della biodiversità dei nostri mari e, in genere, del nostro territorio".

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