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Venerdì, 29 Marzo 2024
Politica

Inaugurazione Fiera del Levante: il discorso del sindaco Decaro

Il primo cittadino ha sottolineato la necessità di non parlare "alla pancia" e ha ricordato la "vicenda paradossale" del Palagiustizia

Signor Presidente del Consiglio, autorità civili, militari e religiose, rappresentanti dei Paesi esteri, imprenditori, benvenuti alla ottantaduesima edizione della Fiera del Levante.

Vorrei cominciare questo discorso con un saluto diverso dal solito. E vorrei prenderlo in prestito da un presentatore della radio e della tv dei tempi dei nostri genitori, dei nostri nonni.

Era Nunzio Filogamo e cominciava le sue trasmissioni dicendo «cari amici vicini e lontani». In quella formula semplice racchiudeva una suggestione bellissima.

Come se, per incanto, la sua voce potesse giungere a tutti, nello stesso modo e nello stesso momento.

Ed era davvero così.

Un bracciante e un ricco commerciante, una insegnante e i suoi studenti, un regista famoso e un attore squattrinato, un metalmeccanico e il proprietario della fabbrica, sebbene «lontani» tra loro, si ritrovavano tutti «vicini», ad ascoltare la stessa voce, a vivere le stesse emozioni, indipendentemente dalla distanza geografica, sociale, economica che separava gli uni dagli altri.

È questa la voce che oggi più che mai la politica dovrebbe provare a ritrovare.

Una voce in grado di accorciare le distanze, di creare comunità unite. Una voce in grado di tenere nello stesso grande racconto i bisogni di ciascuno e il bene di tutti.

Qual è invece oggi, sempre più spesso, la voce della politica?

Quale voce usiamo noi politici?

È purtroppo una voce cinica, volgare, che aizza la rabbia dei singoli, che crea muri tra le persone, che fomenta guerre tra poveri. Una voce che soffia ogni giorno sulle paure e sugli egoismi.

E non a caso spesso noi politici ci vantiamo di parlare alla «pancia» dei cittadini. Io penso invece che sia nostro dovere tirar fuori la nostra voce migliore, e provare a smetterla di parlare alla pancia e ricominciare a parlare alla testa dei cittadini. E se possibile al cuore. Per rispetto nei loro confronti e per rispetto anche della nostra funzione.

E penso prima di tutto a noi sindaci. Agli ottomila sindaci che mi onoro di rappresentare da presidente ANCI. Ecco, a noi sindaci, non è consentito «parlare alla pancia», non è consentito parlare per slogan. Per un semplice motivo, per vicini o lontani che siano, al signor Nicola che è in attesa di una casa popolare, o alla signora Franca che non può portare suo figlio al parco perché le giostrine sono rotte, io posso pure «parlare alla pancia», dire che è colpa dell’immigrato, della burocrazia o dell’amministrazione precedente. Può andare bene la prima volta, forse pure la seconda. Ma c’è un problema. Il signor Nicola e la signora Franca «sanno dove abito». E se non gli risolvo il problema mi vengono a prendere “da sotto al Comune”, come si dice a Bari.

Ecco, noi sindaci, anche volendo, non possiamo allontanarci dai nostri cittadini.

La vicinanza è il nostro dovere. Di più, è la nostra essenza di sindaci.

Vicino, in questo momento, più che mai, alla sua comunità, è Marco Bucci, il sindaco di Genova, a cui va il saluto affettuoso di tutta la città di Bari.

Marco sta lottando fianco a fianco, insieme ai suoi concittadini, e tutti noi dobbiamo essergli vicini, perché la ricostruzione sarà lunga e faticosa. Ricostruzione delle case, degli edifici, del ponte, certo. Ma soprattutto, la cosa più importante, la ricostruzione della verità, la ricostruzione della giustizia, la ricostruzione di un rapporto di rispetto e di cura nei confronti dei cittadini.

Come siamo vicini ai sindaci del Pollino che hanno dovuto assistere, inermi, alla tragedia delle gole del Raganello.

Di fronte a un ponte che crolla, a un fiume che esonda, di fronte a tragedie immani come queste, non esistono più barriere né bandiere, non esistono partiti, campagne elettorali, o strategie del consenso. Per tutti noi politici, dal presidente della Repubblica fino al consigliere di un Municipio, esiste solo il dovere e l’onore di servire le istituzioni del nostro Paese.

Tutti dalla stessa parte, vicini gli uni agli altri, per affrontare con dignità il momento del dolore, e con coraggio quello della ripartenza.

Ma ripartire vuol dire decidere, scegliere, assumersi responsabilità.

Ecco, responsabilità.

Intorno a questa parola, spesso ricorrente nei nostri discorsi, si è purtroppo consumata quest’estate, qui nella nostra città, una vicenda paradossale: quella che ha interessato la sede del Tribunale penale di Bari e la funzione giudiziaria.

Una funzione costituzionale, tanto più indispensabile per questa città dove 16 clan mafiosi sgomitano ancora per il predominio del territorio, per questa terra, dove una signora anziana viene uccisa all’alba per sbaglio nel centro storico di Bitonto, e per questo distretto, alle prese con la mafia garganica e con la piaga del caporalato che nell’arco di pochi giorni ha ucciso 16 lavoratori stranieri.

Eppure da metà maggio 650 operatori e migliaia di cittadini sono stati privati del luogo in cui si amministra la giustizia. Di fronte a un’emergenza di carattere nazionale come questa ci saremmo aspettati una forte unità di intenti.

Invece, signor Presidente, il ministro della Giustizia ha avuto parole ingenerose nei riguardi del sindaco, definendomi “irresponsabile” per aver firmato un’ordinanza che proroga i termini dello sgombero del palazzo che ospita il Tribunale penale.

Un giudizio pesante, da togliere il sonno, anche se, del resto a Bari, sin dal 1991, siamo abituati a ricevere, da parte delle massime cariche dello Stato, espressioni amare e inopportune sull’operato dei sindaci.

Paradossalmente mi sono assunto una responsabilità perché in ballo c’era la paralisi totale della giustizia a Bari. Sì, un sindaco deve fare anche questo: assumersi le responsabilità. Si, anche quelle non sue, perché quando si ha una responsabilità vera, quella che riguarda il futuro della propria comunità, non si può decidere di non decidere.

E se questo vuol dire essere irresponsabili, allora io, davanti a Lei, mi assumo tutta la mia “irresponsabilità”.

Noi, in questa vicenda come in tutte le altre, continueremo a collaborare, ben consapevoli che il nostro dovere è tenere vicine le istituzioni, per evitare che i cittadini si allontanino.

Nel rapporto Demos “Gli italiani e lo Stato” di inizio 2018, l’Italia viene fuori come un Paese di persone «sole» e sfiduciate.

Meno di un italiano su cinque si fida dello Stato, solo uno su tre si fida dell’Unione Europea. Le istituzioni sono viste come lontane dai bisogni delle persone.

Ma il dato più triste e preoccupante di questa ricerca è che gli italiani hanno smesso di fidarsi gli uni degli altri. Solo un italiano su quattro è disposto ad avere fiducia nei propri concittadini. Con una piccola, ma per me significativa eccezione. Il dato della fiducia reciproca aumenta tra le persone che partecipano alla vita sociale della propria comunità.

È la conferma che i momenti di “vicinanza” tra cittadini contribuiscono a ricucire quei legami tra persone, legami fondamentali per la tenuta di una comunità. Una lezione che ho imparato di persona qualche anno fa, a Loseto Nuova, una periferia, un quartiere lontano 15 chilometri dal centro della città.

Ero lì per l’inaugurazione di una piccola giostra in un parco pubblico, quando due signore mi si sono avvicinate, entusiaste, per ringraziarmi. E mentre stavo per rispondere loro che non meritavo tanta gratitudine per un gesto piccolo e peraltro doveroso, mi hanno spiegato che non mi ringraziavano per la giostra. Ma perché, accompagnando i loro bambini a quella giostra, le due donne avevano scoperto di abitare nello stesso palazzo.

Come quelle due signore, tante altre famiglie di Loseto Nuova si sono conosciute e hanno fatto amicizia dentro quel parco, grazie a quella giostra. E la loro richiesta, da quei giorni sempre più insistente, ha spinto la giunta comunale ad approvare il progetto per allargare il parco e installare nuove giostre.

Nuovo verde, nuovi parchi, nuove attrezzature per il tempo libero, che generano legami e amicizia. Ecco, quando si parla di periferie, di progetti, di finanziamenti, di emendamenti, bisognerebbe parlare prima con quelle due signore, ascoltarle mentre raccontano, entusiaste e incredule, che hanno scoperto di essere vicine di casa grazie a una giostrina. E da quel giorno sono meno sole di prima.

Quelle due signore ci ricordano che un cantiere in città non è solo una complicata procedura d’appalto, e che la politica e l’amministrazione della cosa pubblica hanno a che fare, prima di tutto, con la felicità delle persone.

Quelle due signore ci invitano a declinare la contabilità delle decisioni della politica in un orizzonte più semplice, più facile da decifrare. Per esempio, il blocco dei fondi per le periferie deciso di recente con un emendamento notturno in Senato possiamo scegliere di raccontarlo in due modi.

Possiamo dire: «sono stati bloccati i finanziamenti per un ammontare di un miliardo e seicento milioni destinati a 326 Comuni». Oppure possiamo dire che migliaia di bambini non avranno i loro nuovi parchi, che migliaia di famiglie continueranno a camminare su marciapiedi dissestati.

Che migliaia di coinquiline resteranno chiuse nelle loro case senza conoscere mai la loro amica del cuore. E quei cittadini resteranno per molto tempo ancora, «lontani». Lontani dal centro città, certo, Ma lontani, soprattutto, dal rispetto e dalla dignità che a loro si deve.

Confido in Lei, Presidente. Ci dia una mano a ripristinare quel finanziamento. Ci dia una mano a far nascere e crescere quelle piazze dove le persone imparano a conoscersi, a stare insieme e a fidarsi le une delle altre.

Quelle piazze dove possiamo provare a ricostruire la fiducia nelle istituzioni. Ricucendo le ferite, tessendo una trama delicata e stando vicini. Per provare, gradualmente, a mutare la diffidenza in reciproca collaborazione.

È ciò che stiamo provando a fare, nel nostro piccolo, qui a Bari, con le “Reti civiche urbane”. Una misura sperimentale finanziata dai fondi di quella stessa Europa che i cittadini tanto avversano. Creeremo 12 reti civiche, una per ogni quartiere della città.

Ogni rete sarà composta da associazioni, parrocchie, scuole, piccole imprese e da chiunque voglia partecipare all’attività culturale e sociale del proprio quartiere. Il Comune finanzierà le attività per il territorio che ogni Rete, in autonomia, deciderà di promuovere e attivare.

Una vera e propria chiamata alla responsabilità civica e pubblica di tutte le persone che scelgono di aprire la porta e di scendere per strada, per vivere la città.

«Porte aperte per una città viva». Potrebbe essere uno slogan della nostra Fiera.

La nostra nuova Fiera del Levante che oggi ammiriamo nel giorno del suo debutto. Certo, una debuttante con qualche annetto sulle spalle, ma in splendida forma, in questo scintillante vestito nuovo.

Auguri, presidente Ambrosi! A lei il compito di disegnare la Fiera del futuro. Auguri, presidente Casillo! A lei consegniamo il nostro patrimonio perché possa valorizzarlo e innovarlo.

È un’edizione della Fiera un po’ speciale, questa, anche per me. Sì perché tra pochi mesi Bari sarà chiamata a scegliere nuovamente il suo sindaco.

E oggi, su questo palco, non posso fare a meno di riprovare la stessa emozione del settembre di quattro anni fa. Era il settembre 2014 e l’inaugurazione della Fiera del Levante era il mio primo appuntamento ufficiale da sindaco di Bari.

Forse sarebbe l’occasione giusta per fare un bilancio delle tante cose fatte, di quelle riuscite, di quelle meno riuscite, di quelle non fatte. Non lo farò. Per le cose fatte in questi anni vi invito a visitare il padiglione del Comune di Bari qui vicino. Per quelle non fatte, invece, potete visitare la mia pagina facebook e leggere i commenti dei miei affezionati detrattori che approfitto dell’occasione per salutare.

Ma oggi vorrei chiudere con un ringraziamento e un auspicio.

Il ringraziamento è a tutti voi, a tutti i cittadini baresi che ho incontrato in questi anni girando in lungo e in largo per le strade della città. Vi ringrazio perché fin dal primo momento mi avete trattato come uno di voi. Senza infingimenti, senza ipocrisie, mi avete incoraggiato e difeso, ma anche incalzato e “gastemato”, quando ci voleva. Tutto, sempre con la stessa meravigliosa franchezza. E lo stesso ho fatto io con voi. Preferendo sempre un “no signora, il lavoro a suo figlio non posso trovarglielo” a un più conveniente “mo’ vediamo che si può fare”. Grazie per questo rapporto, grazie per questa schiettezza reciproca, anche un po’ rude, che mi permette ancora oggi, qualunque sia il vostro orientamento politico, di camminare in mezzo a voi a testa alta, senza mai abbassare lo sguardo.

Di questo sono orgoglioso e da questo orgoglio viene il mio auspicio. Vorrei aver aiutato i baresi, in questi anni ad essere, anche loro, un po’ più orgogliosi di vivere in questa bellissima città. Vorrei aver contribuito a farli incontrare tra loro, magari in una delle tante corse organizzate per strada, vorrei sapere che oggi, tutti quelli che sono scesi in piazza, in questi anni, per ballare, protestare, per ascoltare musica o semplicemente per passeggiare a Torre Quetta o sul nuovo lungomare di San Girolamo, si sentano, orgogliosamente, parte di una stessa, grande comunità. Questo è l’unico vero traguardo per cui sarà valsa la pena aver lavorato.

È stato un viaggio meraviglioso che ogni giorno mi ha sorpreso, stordito, stancato e rigenerato. L’esperienza umana più bella della mia vita.

Un viaggio in cui ci è capitato di saltare ostacoli e di inciampare, prendere la rincorsa e tornare indietro, di rompere il fiato, di rallentare e di cadere. E di rialzarci, sempre, grazie anche a compagni di viaggio eccezionali. Alcuni di loro, come Nichi, come Maria, come Nicola, li abbiamo persi per strada. Ma le loro idee e la loro passione quelle no, non le abbiamo perse. E ci accompagnano ogni giorno.

Un giorno lontano, Roosevelt, alla Sorbona di Parigi, parlò dell’uomo dell’arena. Disse:

«Non è il critico che conta, né l’individuo che indica come l’uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un’azione.

L’onore spetta all’uomo che realmente sta nell’arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perché non c’è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l’obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta».

Gli 8.000 sindaci italiani sono spesso gli uomini nell’arena di questo Paese, Paola Labriola è stata una donna nell’arena di una tragedia, i commercianti e gli imprenditori baresi che hanno denunciato i loro estorsori sono stati uomini nell’arena della legalità, i ragazzi del quartiere San Pio che invece di accettare l’offerta di un capoclan cercano un lavoro onesto, sono uomini nell’arena del riscatto, le ragazze che denunciano mariti e fidanzati violenti sono donne nell’arena del coraggio, gli insegnanti delle scuole di periferia sono donne e uomini nell’arena del futuro di tutti noi.

Chi abbandona la sua casa, attraversa un deserto, rischia le sevizie, le violenze, la sua stessa vita per regalare una piccola speranza di futuro a sé o alla sua famiglia è un uomo nell’arena di questo mondo ingiusto e strabico. Ciascuno di noi ha la sua arena.

Ciascuno di noi, a modo suo, dovrebbe dedicare un pezzetto della propria vita a battersi per quello che crede sia giusto. O per quello che crede sia, semplicemente, suo dovere fare.

A volte vinceremo, a volte perderemo, ma se in questa lotta avremo anche solo una persona che ci starà vicina, che condividerà la nostra stessa battaglia nell’arena, allora non importa come andrà a finire. Avremo già vinto.
 

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